Fuoco Cammina Con Me (D. Lynch)

Torno finalmente a scrivere per il blog; con una certa continuità, spero, e confessando subito di aver dovuto escogitare uno stratagemma per forzarmi a riprenderlo in mano. Il progetto dei 40 film – che nel frattempo sono diventati 41 – resta in piedi, ma ho deciso di abbandonare il criterio cronologico: non so mai dire in tutta onestà se il prossimo film di cui dovrei scrivere è quello di cui vorrei scrivere, e in ogni caso di alcuni dei titoli dei quali finirei per parlare ho già detto molto sul blog. Si tratta quindi di un modo contorto per dire che non mi rimetterò a scrivere de La Doppia Vita di Veronica, o di Niente da Nascondere, giusto per fare due esempi: ci sono titoli a cui tengo molto di cui ho già scritto diffusamente, e se siete curiosi vi invito a recuperare anche i testi più vecchiotti. L’altro concetto che vorrei uniformasse il futuro di questi scritti è quello di non sentirmi intrappolato da un formato preciso: a volte scriverò pochissimo, ma ad altri film dedicherò pezzi più corposi del solito. Ho infatti passato le ultime settimane a scrivere molto di due film cui tengo in particolar modo, che penso ricoprano agli occhi di molti l’ingiustissimo ruolo di “film minori”, e non vorrei liquidarli in due righe. Detto questo: ecco a voi la prima parte di questo ideale dittico. Il prossimo post invece, per mantenere almeno una parvenza di linearità, lo dedicherò al biennio 1987-1988.

Nonostante la sua fama di film oscuro e incomprensibile, le immagini iniziali di Fuoco Cammina Con Me non potrebbero essere più immediate: i titoli di testa scorrono su un segnale televisivo disturbato, poco prima che lo schermo venga brutalmente distrutto. Chiunque fosse familiare con la storia di questo film, e del suo regista David Lynch, non avrebbe bisogno di ulteriori strizzatine d’occhio per capire quale ne sarà lo spirito; per chiunque altro, un po’ di contesto è essenziale per addentrarsi nei suoi fascinosi misteri.

Nel 1992, anno nel quale Fuoco Cammina Con Me partecipa in concorso al Festival di Cannes, per una larghissima maggioranza del pubblico internazionale il nome di Lynch è indissolubilmente legato a Twin Peaks. Il leggendario show della ABC in poco più di un anno, tra il 1990 e il 1991, aveva cambiato per sempre la percezione delle potenzialità del serial televisivo, non più cugino povero e sfigato del cinema, ma potente, legittimato medium narrativo; e perché no, forma d’arte con le sue specifiche unicità. Immaginate di essere lo spettatore medio della tv statunitense, è la sera del 19 Aprile del 1990 e assistete sul piccolo schermo a una scena surreale, onirica, apparentemente “insensata”: una sala completamente drappeggiata da tende color scarlatto, una donna bellissima e vestita di nero che sussurra enigmi al protagonista, un nano che parla in modo scarsamente comprensibile e balla a ritmo di jazz. Difficile sottovalutare l’impatto – negativo o positivo che sia stato – di questo momento, su di voi come su milioni di altre persone, sedotte dalla sua opacità, dalla miriade di segreti e non-detti che quei pesanti tendaggi rosso fuoco celano. Per dirla con lo stesso Lynch: “Human beings are detectives, and mysteries are magnets”, e le parole che Sheryl Lee sussurra nell’orecchio di Kyle MacLachlan diventeranno istantaneamente un’ossessione collettiva: la madre di tutti i segreti di Twin Peaks, le circostanze dell’omicidio della giovane liceale Laura Palmer e l’identità del suo assassino. 

Il bisogno irrefrenabile di scoprirne ogni lurido dettaglio decretò l’enorme successo della serie, che il network rinnovò per una seconda stagione molto più lunga della prima, ma con presupposti molto differenti da quelli dei suoi creatori. David Lynch e Mark Frost, co-creatore della serie, non avevano infatti la minima intenzione di fornire una soluzione al loro puzzle in tempi brevi, ma la ABC la vedeva diversamente: esercitò molta pressione perché le curiosità del pubblico fossero soddisfatte e il mistero fu svelato già a metà della stagione, ma a un prezzo molto caro. Obbediente alla logica che informa tutto il suo cinema, Lynch non vide di buon occhio l’ingerenza dei produttori e si distaccò dalla produzione ancora in corso, per cominciare a dedicarsi alla realizzazione del suo nuovo film, Cuore Selvaggio. Con un prevedibilissimo effetto domino, la qualità degli episodi calò drasticamente, e così gli ascolti; e non bastò il ritorno del regista per il gran finale, e un colpo di scena indimenticabile, per salvare Twin Peaks dalla cancellazione.

Molti però non erano pronti ad abbandonare quella sperduta cittadina dello stato di Washington, e per primi i suoi creatori. Lynch, in particolare, sentiva ancora una forte attrazione per Laura Palmer e per la sua magnetica interprete Sheryl Lee, al punto di inventare per lei il personaggio di una cugina del tutto identica a Laura, Maddy, pur di mantenerla a tutti i costi nella serie. Decise così di dedicare il suo prossimo lungometraggio alla ragazza “avvolta nella plastica”, la vittima di una violenza inimmaginabile che finora era rimasta non rappresentata, viva solamente nelle foto, nei videotape, nei ricordi degli altri personaggi di Twin Peaks. Ma Fuoco Cammina Con Me, sceneggiato assieme a Robert Engels – che della serie era stato uno degli sceneggiatori e produttori – non era ciò che i fan, il pubblico e i critici si aspettavano.

La prima parte del film, al contrario, sembra un perverso esercizio di sadismo su chi aveva amato Twin Peaks; e quella televisione disintegrata si rivela essere una chiara dichiarazione d’intenti. Lynch ci catapulta in una sorta di universo parallelo, nel quale poliziotti e agenti dell’FBI sono tutt’altro che amichevoli, lo squallore e la violenza sono ben in vista anziché essere solo suggeriti, e nessuno offre ai nostri eroi caffè fresco e deliziosa torta di ciliegia. Nel corso della mezz’ora iniziale la narrazione segue una direzione spiazzante, presentandoci come protagonisti una coppia inedita composta da Chris Isaak e Kiefer Sutherland. I due interpretano degli agenti federali incaricati delle indagini sull’omicidio di Teresa Banks, che i conoscitori della serie ricorderanno essere la vittima precedente di Bob, lo spirito assassino che si aggira a Twin Peaks. La scena del loro primo incontro, nella quale non a caso Lynch compare anche come attore, si spinge al punto di deridere anni di interviste nelle quali all’autore è stato inesorabilmente chiesto il “senso” della sua opera: l’FBI sembra infatti utilizzare come mezzo di comunicazione una bizzarra attrice, con un abbigliamento peculiare e movenze da mimo, i quali devono essere decifrati dagli agenti per ricevere istruzioni sulla prossima missione. Di nuovo, il regista non sembra temere di essere ovvio con la scelta delle sue metafore: difficile non leggere in filigrana lo scherno per lo spettatore che assiste ai suoi film con il taccuino a portata di mano, pronto a sovrainterpretare letteralmente quello che Lynch vuole, e sa, rendere chiarissimo sul piano emotivo senza bisogno di note a piè di pagina.

Lo avrete già capito, Fuoco Cammina Con Me non è il film che vi convertirà, se siete scettici sul suo regista. Il consueto canovaccio della detection, già pesantemente minato da queste premesse, viene definitivamente ribaltato proprio nel momento in cui il film raggiunge un cliffhanger decisivo: l’agente Desmond si china per raccogliere l’anello che Teresa indossava prima di morire, un indizio del quale non conosciamo ancora l’importanza, ma la scena dissolve improvvisamente in nero. Non solo questa cesura visiva ci occulta cosa accadrà in quel preciso momento, ma il destino finale del personaggio non ci verrà mai svelato, almeno direttamente. Il disorientamento iniziale non si esaurisce quindi in un semplice scherzo giocato al pubblico: si rivela parte integrante della rilettura lynchiana degli stilemi del noir, che nel loro rimanere sospesi e irrisolti tradiscono la propria forma classica mantenendone però lo spirito, e trovando anzi una nuova qualità profondamente disturbante. Lynch non è interessato alle soluzioni, ai payoff, non vuole fornirci risposte perché è nei momenti immediatamente precedenti a quella dissolvenza che forse possiamo intravedere qualcosa della natura umana, delle nostre emozioni e paure più intime, dei recessi della psiche.

A seguire questo snodo narrativo fondamentale, arriva non a caso uno dei momenti più weird del film. David Bowie in persona irrompe negli uffici dell’FBI, dove rivediamo – finalmente! – alcune facce familiari: ad accoglierlo ci sono lo stesso Lynch, Kyle MacLachlan nei panni dell’agente Cooper e il compianto Miguel Ferrer. In questa breve sequenza vediamo l’agente Jeffries, interpretato appunto da Bowie, tornare tra i suoi colleghi per raccontare l’esperienza terrificante vissuta nella Loggia Nera, la dimensione parallela il cui ingresso si trova proprio nei boschi che circondano Twin Peaks. In questo flashback allucinato, in cui interferenze visive e sonore si accumulano ben oltre il sovraccarico, il film rompe qualsiasi pretesa di narrativa lineare, segnando definitivamente il primo passo di Lynch verso quella che ormai, col senno di poi, sappiamo sarebbe stata l’avventurosa ed eccitante seconda parte della sua carriera artistica; il primo tentativo di coniugare lo spazio tutto mentale e onirico di Eraserhead con la narrazione complessa e popolata dai fantasmi del noir di Blue Velvet, formula che perfezionerà con i suoi film successivi. La funzione di questo violento tour de force è difatti la medesima del Club Silencio in Mulholland Drive e della trasformazione di Fred in Pete alla quale assistiamo in Strade Perdute, uno shock con il quale Lynch ci mostra la narrazione cinematografica, con le sue costruzioni e la sua intrinseca falsità, per quello che è: uno specchio della nostra mente, la quale, inconsciamente o meno, cerca rifugio in un rassicurante artificio per sfuggire all’orrore del mondo.

Quanto sia reale, questo orrore, il film ce lo mostra nell’ora e mezza successiva: siamo finalmente a Twin Peaks, e il film si svela nel suo essere integralmente un prequel della serie televisiva. Il cuore narrativo di Fuoco Cammina Con Me è infatti dedicato a Laura Palmer, ed è nerissimo. I suoi ultimi giorni di vita, che tanto spesso – e in modo così sfuggente – abbiamo sentito raccontare nel serial, si concretizzano davanti ai nostri occhi svelandone i terrori nascosti, la depravazione, i traumi sepolti. Quel non detto che sembrava fatto apposta per stuzzicare la curiosità morbosa dello spettatore televisivo, avido di immaginare quel che per lo schermo televisivo era ai tempi decisamente un tabù, ci viene sbattuto in faccia più che semplicemente mostrato. Lynch non arretra davanti a nulla, che si tratti di scene di nudo, di uso di droga, di violenza estremamente esplicita; ma allo stesso tempo ne evita qualsiasi possibile risvolto glamour, o parodico. L’approccio del film, ai miei occhi, nasce forse da un processo di autocritica rispetto al suo precedente lungometraggio, Cuore Selvaggio: l’unica sua opera in cui la stravaganza di personaggi e situazioni sembra fine a se stessa, anziché un potente mezzo narrativo per svelare le contraddizioni insite nella natura umana.

La tragedia di Laura, al contrario, è molto vicina all’anima artistica di Lynch, e gran parte del motivo per il quale non voleva lasciarla andare con la fine di Twin Peaks: do quasi per scontato che chi sia arrivato a questo punto della lettura abbia più o meno un’idea della sua storia, che va quantomeno accennata per capire pienamente il senso di questo prequel. Infatti gli abusi, la violenza – sessuale e non solo -, infine la morte violenta che la giovane cheerleader subisce per mano del padre è ben più di una banale storia di possessione demoniaca: la mitologia che circonda i boschi di Twin Peaks, la Loggia Nera, Bob, l’uomo con un braccio solo e via dicendo sono sicuramente affascinanti, e gustosamente weird, ma non sono altro che means to an end. I tormenti e la morte di Laura Palmer sono la storia di un tradimento bruciante: quelle tranquille case e vie suburbane, immerse nei placidi paesaggi naturali del nord-ovest americano, implicano una promessa di serenità che viene ripetutamente violata, sporcata nel più orribile dei modi. A chi conosce bene la filmografia lynchiana suona giustamente familiare: è lo stesso tradimento di Lumberton nei confronti di Dorothy (in Velluto Blu), di Hollywood verso Betty/Diane (in Mulholland Drive), è anche alla radice del rapporto conflittuale con la propria mascolinità dei protagonisti di Eraserhead e Strade Perdute.

La vera magia di Fuoco Cammina Con Me non è però solo estetica e narrativa. La sua messinscena iperrealista, l’estro inarrivabile delle scenografie e del sound design, la precisione del montaggio, tutto quello che insomma abbiamo imparato ad amare nel cinema di Lynch non avrebbe lo stesso, potentissimo impatto se a dare corpo e anima alla rappresentazione del trauma non ci fosse Sheryl Lee. A costo di esagerare, non ho esitazioni nell’ammettere che la reputo una delle più grandi interpretazioni della storia del cinema: ogni lacrima, ogni urlo, ogni sguardo assente di Laura Palmer in questo film è terrificante soprattutto perché autentico, vissuto più che recitato. Si è sempre molto scritto e chiacchierato dei ruoli femminili nel cinema lynchiano, e dei risvolti a dir poco problematici di quanto il regista chieda alle sue intepreti: su due piedi mi vengono in mente almeno la stroncatura di Roger Ebert a Velluto Blu, inorridito dal trattamento riservato a Isabella Rossellini sullo schermo, e la scena di masturbazione di Naomi Watts in Mulholland Drive. Eppure, non ho mai sentito una delle sue collaboratrici esprimere qualcosa su di lui che non fosse estatico apprezzamento, e nel momento storico in cui viviamo non è davvero cosa da sottovalutare. Di questo filo rosso che percorre tutta la carriera di Lynch, Fuoco Cammina Con Me è forse il tratto più significativo: il ruolo richiede a Sheryl Lee una dedizione e una disponibilità totalizzante a scene magari umilianti o dure da sopportare, nelle quali l’attrice si getta quasi come fosse una martire sul fuoco. La scelta di parole non è casuale, dal momento che il lieto fine di Laura, se esiste, non è di questo mondo: lo struggente finale del film, nella quale la vediamo finalmente sorridere inondata di luce angelica, nasconde la crudele realizzazione che non c’è beatitudine senza la morte, e che tutto deve finire affinché il dolore abbia redenzione. In heaven, everything is fine.

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